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Palazzo Vecchio, Salone dei 500 – 11 agosto 1999
Cinquantacinque anni fa, con un comunicato diffuso all’alba, il Comitato toscano di liberazione nazionale assumeva "tutti i poteri di governo provvisorio che gli competono quale unico organo rappresentativo del popolo toscano […] Forze del Ctln hanno fin da stamane occupato la città e combattono contro i tedeschi, i fascisti e i franchi tiratori. Tutti i cittadini devono contribuire con tutte le proprie forze alla liberazione della città, dare tutto l’aiuto morale e materiale ai nostri coraggiosi patrioti. Le sofferenze più gravi della popolazione stanno per cessare con la nostra vittoria". Era il proclama dell’insurrezione e per i tedeschi il segnale di una partenza ormai annunciata e irrimandabile: le difficoltà di una situazione sempre più insostenibile sotto il profilo degli approvvigionamenti alimentari sconsigliava ai tedeschi la tenuta di una città non di vitale importanza strategica e ormai per larga parte in mano ai partigiani, come Firenze.
La città era ferita, stremata: i ponti sull’Arno fatti crollare dai nazisti pochi giorni prima erano il simbolo più chiaro delle sofferenze di tutta la popolazione. La guerra non era ancora finita: la stessa battaglia di Firenze sarebbe durata ancora per giorni lasciando sul terreno più di cento caduti. E ancora in agosto inutili colpi di mortaio nazisti avrebbero mietuto vittime fra i fiorentini. Ma la mattina dell’11 agosto 1944 i fiorentini potevano finalmente ricominciare a guardare al domani con speranza. Il corteo di partigiani che quel giorno sfilò per le vie del centro – mentre gli alleati aspettavano prudentemente fuori città – dette bene l’idea di cosa sarebbe stato quel domani. Giovani delle Squadre di Azione Patriottica, della Brigata Rosselli, della Buozzi, ex militari ed ufficiali dell’esercito marciavano assieme a comunisti e socialisti: segno e simbolo di un futuro pluralistico, multicolore, non più soffocato dalla cappa di piombo di una camicia nera uguale e obbligatoria per tutti.
Nella storia così antica e grande della nostra città la Liberazione rimane un passaggio decisivo, da cui è possibile continuare a trarre insegnamenti preziosi. Ne sottolineo due che mi paiono particolarmente significativi.
Il primo è l’unità del Comitato toscano di liberazione nazionale. I suoi dirigenti di allora – da Enzo Enriques Agnoletti a Foscolo Lombardi, da Adone Zoli a Giulio Montelatici, da Carlo Lodovico Ragghianti a Gaetano Pieraccini – seppero sempre sacrificare le esigenze di "visibilità" del proprio partito rispetto alla superiore necessità di conservare la compattezza della coalizione nei confronti non solo del nemico ma anche degli alleati angloamericani, riuscendo così a rappresentare un elemento di forza e stabilità istituzionale in quel drammatico trapasso. Per la prima volta una città italiana riusciva a darsi da sé un sindaco e un’amministrazione: "Firenze è stata il teatro – scrisse il Times in quei mesi – di un’esperimento spontaneo di autogoverno, che può avere importanza considerevole per determinare quale sarà il sistema politico che, in definitiva, prenderà il posto del fascismo".
Il secondo è la reazione della cittadinanza, la sua capacità di essere davvero comunità urbana coesa e solidale proprio nei momenti più tragici e dolorosi. Numerosi e troppo spesso dimenticati sono gli uomini e le donne di Firenze che da "civili" persero la vita o rimasero gravemente feriti in quei giorni: eppure la forza e la compattezza della cittadinanza furono tali da consigliare al comando tedesco una rapida ritirata anziché una tenuta destinata inevitabilmente a suscitare forme di resistenza ancora più estese. È successo altre volte anche nella storia successiva della città – penso ad esempio all’alluvione del 1966 e alla nascita dei comitati di quartiere – che i fiorentini sapessero ritrovare il senso di fratellanza scoperto sotto le bombe e la dominazione straniera degli anni di guerra. Eppure oggi – quando per tanti aspetti la vita e le prospettive appaiono così profondamente diverse – è difficile ritrovare una stessa anima della città profonda e condivisa: quasi che il benessere raggiunto abbia costretto ciascuno nel proprio "particulare" (come diceva il Guicciardini) di singolo o di categoria.
Per molte delle persone che oggi sono qui, quelli della Liberazione sono ricordi ancora vivi, pieni di emozione, di dolore, di significato.
Ma dobbiamo sapere che non è per tutti così. Partirò da un dato dell’attualità, che considero assai inquietante e che credo debba spingerci a commemorazioni non rituali e non ripetitive. Oggi per una larga maggioranza dei giovani sotto i 25 anni (il 54% secondo un recente sondaggio) l’antifascismo non costituisce più un valore di riferimento. Ed è diventato ormai luogo comune affermare che il 25 aprile o l’11 agosto non sono riusciti a diventare per gli italiani o i fiorentini ciò che il 14 luglio è per i francesi: una festa veramente nazionale sentita e condivisa da tutti. Perché?
È questa la domanda che credo necessario e urgente proporre alla vostra riflessione. Non sono pochi coloro i quali pensano che la Resistenza non avrebbe mai potuto diventare fattore di identità nazionale perché è stata un fatto minoritario, militarmente insignificante, artificiosamente gonfiato dalla propaganda di sinistra. Secondo tale opinione la maggioranza degli italiani è rimasta immersa nella sua solita "zona grigia" di indifferenza e passività, pronta a salire con disinvoltura sul carro del vincitore.
Eppure proprio la memoria degli eventi legati alla battaglia di Firenze ci spinge a mettere fortemente in discussione questo giudizio. Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1944 Aligi Barducci detto Potente, il comandante dei partigiani impegnati nella liberazione della nostra città, venne ferito mortalmente in Piazza Santo Spirito da una scheggia di obice tedesco insieme a un alto ufficiale inglese. Quando a prendere i feriti arrivò l’ambulanza dell’esercito britannico fu lo stesso ufficiale inglese a chiedere che per primo venisse soccorso Potente: un segno chiaro di rispetto militare, ancor più significativo perché veniva dopo giorni di reiterate richieste alleate per il disarmo immediato della divisione partigiana comandata da Potente. Per quanto gli angloamericani ne diffidassero sul piano politico, i partigiani agli ordini del Comitato toscano di liberazione nazionale erano in grado di fornire un contributo militare considerato e apprezzato. Ed è grazie a quei partigiani se dopo il 1945 l’Italia riuscì ad evitare il destino postbellico della Germania, divisa e occupata dai suoi nemici.
L’importanza militare della Resistenza non fu trascurabile: sono molti i documenti interni della Wehrmacht – recuperati anche di recente dagli archivi militari tedeschi – che si diffondono sul peso e l’estensione territoriale delle Bandengebiete (le zone controllate dai partigiani) nonché sull’entità delle forze naziste distolte dal fronte di guerra per fare fronte alla guerriglia del Cln. Anche il Risorgimento italiano, anche la Rivoluzione francese o quella americana sono state opera di una minoranza, come tutti i grandi eventi della storia. Eppure ciò non ha impedito loro di diventare risorse vitali di memoria e identità nazionale.
Si obietta però che la Resistenza divise gli italiani e li sollevò contro il proprio stato mettendosi al servizio degli alleati stranieri. Non combatté ma anzi approfondì quella "morte della Patria" che secondi alcuni si determinò in seguito all’armistizio dell’8 settembre. Ma a smentire radicalmente questa obiezione è proprio la biografia di Potente: fedele servitore dell’esercito fascista, combattente in Africa per l’Impero di Mussolini, mai stato comunista ma deciso a combattere insieme ai comunisti proprio per difendere quella patria che né il Duce né il Re si erano dimostrati capaci di proteggere. Per lui come per tanti altri partigiani – basta rileggersi le lettere dei condannati a morte della Resistenza – la parola patria era una parola carica di significato, di progetto, di futuro: era il senso più autentico della loro vita e della loro morte.
Ma allora perché l’antifascismo e la Resistenza – se non sono stati fenomeni élitari, insignificanti, antinazionali – hanno oggi perso per tanti giovani la loro carica originaria di significato, di progetto, di futuro, di senso? Questa domanda rimane tuttora aperta davanti a noi.
Vorrei allora cercare di proporre alla vostra discussione un’altra possibile risposta. Nell’immediato dopoguerra soprattutto la sinistra ha coltivato il mito di una Resistenza come fatto popolare, collettivo, unanimistico e di un antifascismo come tessuto connettivo, da tutti condiviso, della nuova Repubblica. La parte di italiani che aveva scelto di andare a Salò fu messa tra parentesi e dimenticata. Ma negli anni la sinistra rimase sempre più sola a coltivare il ricordo della guerra partigiana: di fatto, silenziosamente, nel senso comune si venne accreditando un’equazione tra sinistre e Resistenza. Nello stesso tempo le celebrazioni acquistavano un carattere sempre più ripetitivo, proprio per tener fede a quel profilo unanimistico, privo di incertezze e divisioni interne. Piano piano la Resistenza ha rischiato di diventare solo un'occasione celebrativa piuttosto che un argomento vivo di discussione. È questo – credo – a tenerne lontani i ragazzi e le ragazze di oggi.
Ciò significa che il compito che abbiamo di fronte, in ricorrenze come questa, è molto più difficile e complicato di quanto siamo abituati a pensare. Badate bene: il problema non è quello della riconciliazione. L’ingiustizia più grande che oggi possiamo fare ai caduti di una parte e dell’altra è quella di pensare che in fondo tra loro non c’erano differenze, che in fondo erano tutti bravi italiani che pensavano in modi diversi di servire la loro patria: cioè che sono morti inutilmente.
Io penso l’esatto contrario. Proprio le memorie dei combattenti di Salò ci aiutano a ricostruire meglio il loro mondo morale e a capire quanta e quale fosse la distanza che li separava dai partigiani. Una di quelle memorie si intitola "A cercar la bella morte" ed è un titolo significativo, che condensa bene le motivazioni di quanti (spesso giovani e giovanissimi) scelsero di rimanere fedeli a Mussolini: una lealtà fatta di obbedienza e coerenza interamente rivolta al passato, un scelta eroica nutrita di superomismo che non aveva e non cercava un futuro positivo da costruire e anzi sembrava perseguire un cupio dissolvi autodistruttivo, una scelta individuale condotta in spregio alla massa che non aveva e non cercava una valenza politica collettiva, di convincimento degli altri. La dimensione morale ed esistenziale entro cui si muovono le lettere dei partigiani italiani condannati a morte appare esattamente opposta: una preoccupazione costante per il futuro collettivo e per l'interesse comune, cui si spera la propria morte individuale possa portare un contributo.
Da questo punto di vista si capisce bene come oggi il problema non sia la riconciliazione. Oggi il problema è piuttosto di esplicitare fino in fondo le differenze, seguendo percorsi diversi da quelli ideologici tradizionali. Non solo le differenze irriducibili tra i mondi morali di partigiani e fascisti, ma anche le differenze di cultura e comportamento tra partigiani e partigiani. Perché la Resistenza non è stata un blocco monolitico ma un movimento fatto da uomini e donne diversi tra loro. Un insieme eterogeneo e multiforme, esattamente come il corteo che sfilò per Piazza Signoria cinquantacinque anni fa e che comprendeva ideologie e culture politiche diverse. Esplicitare queste differenze, i valori, le speranze, i punti di accordo e i comportamenti difformi, non significa sminuire la Resistenza bensì restituirle verità, dando articolazione e concretezza a quei principi (antifascismo, libertà, democrazia) che ne costituirono il nucleo unitario più vitale.
La scommessa che abbiamo davanti è perciò quella di ampliare il fronte della ricostruzione storica. L’invito che formulo in questa solenne occasione ai centri di ricerca, all’Università, agli istituti storici è di operare perché vengano rintracciate e conservate le testimonianze non solo dei combattenti – un lavoro ampio in tale direzione è già stato compiuto nella nostra regione – ma anche dei cosiddetti italiani qualunque, di coloro che allora sembrarono non essersi schierati apertamente né da una parte né dall’altra. Non pochi di loro sono morti durante la guerra, eppure del loro sacrificio sono rimasti soltanto i parenti a coltivare il ricordo. In realtà non esistono italiani o fiorentini "qualunque": nel suo piccolo ognuno di loro ha consumato scelte e seguito comportamenti che non hanno mai potuto essere completamente neutrali. Solo una storia astratta e incurante degli uomini in carne ed ossa può pensare di trascurare questa maggioranza silenziosa, i cui spostamenti molecolari possono però risultare determinanti. Ricostruire l’esperienza concreta di queste persone, l’evoluzione nel tempo dei loro rapporti quotidiani e minuti con il regime fascista, della loro considerazione dei partigiani, della loro lotta per la sopravvivenza, del loro piccolo mondo morale fatto di paure e di speranze: è questa la storia viva di cui i giovani oggi hanno bisogno. Non di monumenti, ma di esistenze vitali in cui specchiarsi per misurare differenze e somiglianze. Cosa significava per quei fiorentini sentirsi italiani? Quali significati diversi assumeva per ciascuno di loro la parola "patria"? E qual era il futuro diverso che ciascuno di loro immaginava per sé e per il proprio paese?
Voglio dire – e concludo – che solo una ricerca storica capace di restituire il senso del vissuto individuale può oggi suscitare interesse e attenzione tra i giovani e superare la frattura che negli anni si è venuta creando tra le generazioni, la distanza tra la memoria degli anziani che hanno conosciuto la dittatura, la guerra, la fame e il presente dei figli che, per loro fortuna, non hanno mai incontrato né l’una né le altre. Solo conoscendo attraverso la bocca degli anziani cosa sono state la dittatura, la guerra e la fame, i nostri figli potranno capire cosa sono e quanto valgono la democrazia, la pace e la prosperità. Ma se non riusciamo a stabilire questo ponte tra le generazioni corriamo il rischio che queste parole perdano sempre più valore e significato.